Tu sei pazzo, mica Van Gogh!
<<La normalità è una strada lastricata: è comoda per
camminare, ma non vi cresce nessun fiore>>.
Van Gogh, tanto geniale quanto incompreso in
vita, influenza parte del XX secolo. Artista di quasi novecento dipinti ed
altrettanti numerosi disegni, alcuni dei quali di ispirazione giapponese, nasce
in Olanda nel 1853 ove morirà all’età di 37 anni.
Una vita tanto
breve quanto produttiva, veloce ma incisiva, caratteristiche essenziali della
sua indole e della sua arte; come lo sono anche i suoi tocchi sulle tele,
delicati e decisi, dal significato profondo e graffiante, dal complessivo
aspetto di un’opera sinuosa ed aggraziata, semplicemente piacente agli occhi.
Una complessità poetica che si fonde a semplicità tecnica, creando turbini
meravigliosi di sensazioni, che trovano corrispondenze nel suo dissidio
interiore, che ha stroncato la sua vita in giovinezza.
Van Gogh non ha
mai finito di dipingere, rimanendo meravigliosamente attivo sino alla
morte. La sua arte ora è riconoscibile
in tutto il mondo, mentre la sua persona rimanda sempre all’immagine di un instabile
mentalmente.
Quello che ci
proponiamo di fare oggi è analizzare la sua persona e smentire il mito del
“pazzo” attraverso le sue opere, esaltandone l’originalità.
Come abbiamo detto
la sua vita è stata breve, ma fruttuosa. Sulla sua strada per niente lastricata
son cresciuti numerosi fiori; si pensi a “Campo di grano con volo di corvi” uno
degli ultimi quadri, se non proprio l’ultimo, nonché manifesto del suo ormai
punto di non ritorno. Corvi volanti tra distese gialle di grano, quale più
palese segno della sua imminente morte? In esso proietta il proprio stato
d’animo tormentato, la sua insofferenza, un presentimento di lutto più incombente
e cupo che mai. Proprio in quei campi, di lì a pochi giorni, si sparerà segnando
la fine di un artista.
Van Gogh però non
è solo questo. Il pittore olandese è anche uso d’assenzio e d’oppio,
allucinazioni visive che portano a colori accesi, pennellate corte, veloci e
nervose, massicce e dense, gialli e verdi che accendono la tela e spiccano
nelle notti più buie. Esattamente come in “notte stellata” forse il più famoso
dei suoi quadri.
A rendere
piacevoli i suoi tocchi irregolari regnati dall’instabilità emotiva, da eros e
thanatos, da normalità e malattia, vi è l’andamento ondulatorio delle sue tele,
come se fossero in continuo mutamento, designando dunque una realtà mai stabile
e noiosa, ma estremamente dinamica.
<<Una
realtà per niente noiosa>>, ecco di cosa viveva, ecco il suo mondo, ecco
la sua arte. Ecco perché lo conosciamo oggi. Fautore di quell’estetica audace
ed un po’ scomoda, che appariva ai contemporanei lacerante e ben poco
seducente. Non si parla più di quell’arte ideale del secolo precedente, di
donne nude e seni scoperti, minuziosità nella resa del colore e pedissequo
studio tecnico. È l’era della soggettività.
Van Gogh guarda
agli impressionisti solo affascinato dalla loro tavolozza di colori, ma in essi
non si riconosce.
In una lettera al
fratello Theo dice, probabilmente riferendosi alla notte stellata, durante una
delle sue permanenze in un ospedale psichiatrico, al quale si consegna
volontariamente e perciò libero di agire “non so nulla con certezza, ma la
vista delle stelle mi fa sognare”.
Passa le giornate
tra un dipinto e l’altro, nella monotonia di stanze bianche e tristi di una
clinica. In un altra lettera a Theo scrive “presto torneranno i giorni belli ed io
ricomincerò ad occuparmi di frutteti in fiore”.
Come spesso accade
ai geni, le opere di quel disperato periodo sono tra le migliori prodotte da
Van Gogh.
Un altro chiaro
esempio ne è “Autoritratto”, dipinto nel 1889 nel manicomio di Saint Remy ove
tentò di uccidersi ingerendo i colori. A proposito di questa tela l’artista
scrive a Theo: “l’espressione del mio viso ti sembrerà più calma, sebbene a me
pare che lo sguardo sia più instabile di prima”.
Da una prima
analisi emerge come il suo periodo più instabile porta alle creazioni che restano
nella storia.
Con Van Gogh la
vita diventa un’iper-vita e l’arte una iper-arte, all’insegna della
sopravvivenza tra tumulti interiori e vicissitudini col mondo. L’arte diventa <<l’arte
della malattia>>, una delle tante chimere, inganni e ironie della natura.
Molti artisti ne sono stati coinvolti e tra essi, lo stesso artista olandese.
Equiparare l’arte
alla malattia significherebbe equiparare la malattia all’arte. Come se una vita
monotona non portasse che alla noia. E se fosse proprio così? Se Van Gogh non
avesse vissuto com’ha fatto, conosceremmo ora tale genio? Se Goya non fosse diventato
sordo a causa di un intossicazione dai suoi stessi colori e se non avesse avuto come conseguenza un’alterazione
della personalità, conosceremmo noi, oggi, il suo lato inquieto? E se Munch non
avesse sofferto di ansia patologica conosceremmo noi, oggi, “L’urlo” così
com’è? O sarebbe in esso rappresentato un giovanotto che passeggia su un ponte?
È un
tema allo stesso tempo venereo, dionisiaco e faustiano.
Poiché dello star
bene non si ha, naturalmente, motivo di lamentarsene, è probabile che in esso
non si ha nemmeno motivo di produrre: artisticamente, pittoricamente,
musicalmente, letterariamente.
E dunque una
grande ottica si apre d’innanzi a noi. Che la malattia sia più produttiva
artisticamente che della normalità? Ammesso che vi siano criteri e metri di
valutazione per distinguerli, dov’è che sta il confine tra le due? Che questo
binomio sia la natura stessa dell’essere umano?
È troppo
presto forse per rispondere, nel frattempo ci si gode l’arte.
E come dice
Caparezza in una canzone atta ad esaltare la figura dell’artista olandese, con
linguaggio giovanile ma d’impatto: <<Tu sei pazzo, mica Van Gogh!>>.
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